Giorgio Morelli, 17enne di Reggio Emilia, partecipa con altri giovani ai «Fogli Tricolore», ciclostilati nati nel settembre del 1943 per incitare alla resistenza contro nazisti e fascisti. Nel ‘44 si rifugia sull’Appennino, unendosi alla Repubblica partigiana di Montefiorino e poi alla Brigata Fiamme Verdi. Il 24 aprile 1945 è tra i primi partigiani scesi dall’appennino ad annunciare la liberazione di Reggio Emilia. Dopo la guerra, entra nella Democrazia Cristiana e fonda insieme ad altri ex partigiani l’Organizzazione Giovanile Italiana, movimento che promuove un’opera di formazione sociale e culturale dei giovani secondo i principi della democrazia e della giustizia sociale. Nelle pagine del giornale «la Nuova Penna», denuncia alcuni crimini postbellici compiuti da ex partigiani comunisti ed è egli stesso vittima di un agguato, le cui ferite lo condurranno alla morte a soli 21 anni.
FONTI BIBLIOGRAFICHE
M. Carrattieri - G. Vecchio (a cura di), «La Penna». Periodico indipendente, Diabasis, Reggio Emilia 2009.
M. Busani, Giorgio Morelli "Il Solitario". Storia di un giornalista partigiano, Studium, Roma 2024.
Alcuni giorni dopo l’armistizio dell’8 settembre, in molte buche delle lettere di Reggio Emilia appare un ciclostilato che incita alla rivolta contro l’esercito tedesco. Non ha titolo: sulla prima pagina c’è solo una piccola bandiera dell’Italia e per questo viene ribattezzato «Fogli Tricolore».
Le indagini dei fascisti durano quasi un anno ma non portano a nulla. Così nell’estate del '44 i nazisti cominciano una caccia spietata agli aut ori, convinti che siano alcuni liberali.
Non possono immaginare, però, che dietro quei fogli non ci sono uomini maturi che hanno deciso di fare la resistenza: dietro quei fogli c’è soltanto un pugno di ragazzini tra i 15 e i 18 anni, quasi tutti provenienti dall’Azione Cattolica, che hanno voluto cominciare la loro lotta per la libertà.
Tra gli autori di questi fogli c’è Giorgio Morelli: ha 17 anni e un animo inquieto che ha sempre preoccupato i genitori. A 15 anni la madre gli scrive: «Da troppo tempo sciupi le tue energie e le disperdi in fantasticherie che ti rubano il tempo migliore per inseguire chimere».
La madre ha forse un po’ di ragione nel preoccuparsi: Giorgio si è ritirato dall’Istituto agrario perché si sente portato per le materie umanistiche e ora sta studiando da privatista per sostenere l’esame. Ma l’assistente spirituale del collegio salesiano scrive ai genitori che i desideri di Giorgio non sono semplici “fantasie”: «Nello studio, come nei sogni dello spirito, tiene sempre gli occhi fissi in alto: porta con sé il segno di una nobiltà di vita, di giudizio, di aspirazione, che destano meraviglia. Appartiene a coloro che danno vibrazioni alla vita e motivo alle speranze».
Quando frequenta l’Azione Cattolica incontra una visione della vita lontana dall’ideologia fascista e grazie all’insegnamento di laici e sacerdoti si entusiasma per il valore insopprimibile di ogni esistenza, per il senso della carità e dell’azione sociale, per l’importanza vitale della libertà.
Grazie a questi incontri e al suo temperamento Giorgio si schiera.
Negli articoli che firma con il nome di battaglia “Il Solitario”, spiega che lui e i compagni non vogliono aspettare la fine della guerra restando con le mani in mano. Loro vogliono «l’atmosfera cocente della lotta per la vita», hanno bisogno di agire, di ribellarsi al fascismo e al nazismo.
Così scrivono in uno dei primi numeri dei «Fogli Tricolore»:
«Per questo noi gridiamo: preparatevi materialmente, e soprattutto spiritualmente. Tradita e delusa, la nostra gente va perdendo la fiducia in sé stessa e in ogni possibilità di rinascita. Più che nelle vicende avverse, più che nella guerra maledetta, il pericolo è in noi».
I «Fogli Tricolore» sono battuti a macchina da Giorgio Morelli e Ubaldo Morini, nome di battaglia “Caput”. Per ogni numero realizzano tra le 150 e le 900 copie, diffuse con l’aiuto di una dozzina di collaboratori. Giorgio coinvolge anche le sorelle Maria Teresa e Bianca e si confida con la madre, mentre il padre è tenuto all’oscuro.
I ragazzi vogliono difendere una Patria che sia espressione di tutto il popolo italiano, ma per loro - nati e cresciuti sotto un’educazione totalitaria che fa coincidere il popolo con lo Stato fascista - non è facile definire cosa sia la Patria. Così, alla ricerca della propria identità, fanno tre scelte.
Prima di tutto rifiutano di legarsi ai partiti politici, rinunciando quindi ai loro aiuti economici. Poi risalgono indietro nel tempo fino ai ‘martiri’ del Risorgimento che, scrivono, hanno combattuto i tedeschi per creare un’Italia unita e libera.
E infine guardano agli orizzonti proposti da don Dino Torreggiani, che oltre alla vita spirituale nell’Azione Cattolica educa i ragazzi alla vita sociale. Sul giornale, quindi, i ragazzi denunciano la persecuzione degli ebrei, denunciano la povertà e le disuguaglianze denunciano le falsità del fascismo perché hanno scoperto che la Patria non è lo Stato né tantomeno il Partito, ma è prima di tutto la vita della società, fatta di anime diverse che devono essere libere.
Nella primavera del '44 la morsa dei nazi-fascisti si stringe e Giorgio deve scappare sull’Appennino reggiano. La pubblicazione dei «Fogli Tricolore» però non si interrompe grazie alla sorella Maria Teresa che fa da collegamento tra lui e gli altri collaboratori.
Nel mese di giugno arriva l’ordine di arruolarsi nella Repubblica Sociale Italiana: lui diserta e rimane sui monti, dove in estate nasce la Repubblica di Montefiorino.
È il territorio sull’Appennino tra Reggio e Modena di 1000 chilometri quadrati che i partigiani hanno liberato dalle forze tedesche e repubblichine e dove per la prima volta dopo anni di dittatura si sperimenta la democrazia.
Ogni comune indice delle elezioni libere per costituire delle giunte i cui rappresentanti sono eletti da tutti i capifamiglia. Morelli raggiunge il Comando reggiano e collabora alla nascita del primo giornale di quelle formazioni partigiane, «Il Garibaldino».
Dopo 45 giorni di libertà, la Repubblica di Montefiorino è distrutta: le forze tedesche attaccano con la brutalità più atroce, molti paesi sono dati alle fiamme per la colpa di aver appoggiato i partigiani e molte donne, anziani, bambini e sacerdoti sono uccisi.
Giorgio torna a nascondersi dai genitori. Nel dicembre del '44 è informato che qualcuno ha fatto la spia ai nazisti che ora sanno l’identità dei redattori dei «Fogli Tricolore», ma riesce a fuggire appena prima che i fascisti bussino alla porta. Viene arrestata la madre, Maria Rossi, che nonostante l’interrogatorio non fa il nome di nessun collaboratore.
Passando da un nascondiglio all’altro, in un paio di settimane Giorgio e i suoi amici tornano sull'Appennino per unirsi alla Brigata partigiana Fiamme Verdi, guidata da don “Carlo”, giovane sacerdote della montagna che si è staccato dalle Brigate Garibaldine perché si sono trasformate in un braccio del Partito Comunista. Queste nuove Brigate partigiane raccolgono i cattolici e tutti coloro che non vogliono essere associati ai comunisti.
“Il Solitario” infatti parla di sé e dei suoi amici come «Ribelli del pensiero» che finalmente si sono uniti ai «Ribelli dell’azione».
Anche queste brigate hanno un giornale clandestino, si chiama «La Penna» e nasce sotto la guida di Giuseppe Dossetti, e anche questo giornale ha naturalmente bisogno di inchiostro, carta e ciclostile: Eugenio Corezzola, nome di battaglia Luciano Bellis - amico di Giorgio e suo collaboratore ai «Fogli Tricolore» - ha il compito di portare in montagna il carretto con tutto il materiale che serve a continuare la battaglia delle idee: spiegare gli errori del pensiero nazi-fascista e denunciare l’orrore delle sue azioni.
Le forze inglesi - presenti sul territorio dal luglio del ‘44 - danno finalmente appuntamento alla brigata Fiamme Verdi a Ramiseto per unirsi e cominciare la discesa verso Reggio Emilia. A Scandiano, un paesino a 15 km da Reggio, Giorgio non resiste nell’attesa e chiede in prestito una bicicletta per andare in città e annunciare la liberazione sventolando una bandiera italiana.
Questo è il suo ricordo di quel momento: «Alle 17 del 24 aprile sono entrato in Reggio, primo patriota della montagna ad annunciare al popolo l’ora della Liberazione. Ho percorso le vie della città mentre ancora si sentiva il rombo del cannone, ho gridato che i patrioti scesi dalla montagna erano alle porte. Ho gridato con tutta la mia voce la prima parola di libertà dopo tanti anni di schiavitù. Ho visto questo popolo reggiano uscire in massa dalle porte, sbucare di corsa dalle vie, aprire tutte le finestre, gettare mazzi di fiori; ho udito una marea di voci e di grida e sopra tutto questo mi è giunto il calore di un applauso instancabile. E allora ho pianto. In quest’ora sino ad oggi sconosciuta, o forse incompresa, il sacrificio silenzioso e sublime dei miei fratelli di lotta ha ricevuto la sua più alta consacrazione».
Dopo la Liberazione, Giorgio si iscrive alla Democrazia Cristiana, riprende gli studi e fonda il movimento OGI (Organizzazione Giovanile Italiana). Questi giorni però non sono i giorni di festa che il popolo si aspettava, da quelle parti l’orrore si ripresenta: vengono ritrovati i corpi di alcuni amici partigiani e collaboratori dei «Fogli Tricolore», come Mario Simonazzi nome di battaglia “Azor”. Il fatto spaventoso è che tutte le prove fanno pensare a vere e proprie esecuzioni non da parte dei nemici fascisti o nazisti: la mano che ha sparato è la mano di altri partigiani.
Giorgio comincia a indagare e pubblica i risultati su «La Nuova Penna», giornale stampato insieme ad altri ex partigiani delle Fiamme Verdi. Continua a firmarsi “Il Solitario” e lancia accuse sempre più dure contro l’ANPI locale e alcuni ex partigiani garibaldini iscritti al Partito Comunista reggiano.
Alcune sue piste investigative si rivelano infondate, ma il clima di minaccia e di mancanza di libertà che denuncia è reale: in quella zona ci sono bande di ex partigiani che non hanno abbandonato le armi e uccidono tutti quelli che sono considerati i nuovi nemici, senza farsi troppi problemi: proprietari terrieri, imprenditori, sacerdoti, uomini della DC o dell'Azione Cattolica, liberali. Persino un sindaco socialista. Per fermare quelle esecuzioni sommarie interviene direttamente Togliatti grazie alla pressione di Dossetti e di altri.
L’obiettivo di Giorgio comunque non è fare l’investigatore, lui vuole costringere i carabinieri a cominciare seriamente le indagini sugli omicidi irrisolti. Sopra ogni cosa vuole difendere la memoria degli amici uccisi, perché il PCI locale inizia una campagna stampa per diffamare le vittime, accusandole di essere state fasciste e lui questo non può sopportarlo.
Il lavoro di denuncia lo rende famoso, ma con la fama, arrivano anche le intimidazioni e il sabotaggio. Per le minacce «La Nuova Penna» deve cambiare dieci tipografie e per paura di ritorsioni firma gli articoli dei collaboratori con nomi falsi. Anche gli edicolanti hanno paura si rifiutano di venderlo, così il giornale viene distribuito porta a porta o nelle sedi della DC. Il clima attorno a Giorgio si fa sempre più pesante.
La sera del 27 gennaio 1946, Giorgio sta tornando a piedi da uno spettacolo nel teatro della parrocchia di Borzano. Dopo un chilometro, all’altezza di Ca’ De Duchi, una torcia lo abbaglia e due uomini gli sparano. Sei colpi di pistola mentre lui si getta in un fosso. Tre colpi lo mancano, due gli sfiorano il torace e il braccio, e uno gli trapassa la spalla vicino al polmone.
Decide di non sporgere denuncia ma il giorno dopo scrive alla madre: «Mamma, ieri sera mi hanno attentato la vita. E io so che l’attentato proviene dagli stessi assassini di Azor». Le ferite di Giorgio non guariscono dopo più di un anno di sofferenze muore il 9 agosto del 1947 a 21 anni.
I suoi amici gli dedicano un pensiero che è l'ideale di Morelli: sempre giovani nel cuore, sempre uomini nella coscienza. Ci sono altre parole però che lo raccontano meglio, le parole che lui stesso scrive pochi giorni dopo l’attentato. Giorgio infatti spiega sulla Nuova Penna perché non si fermerà: vuole continuare a vivere da uomo libero.
«Per dieci mesi nella clandestinità dell’oppressione fascista abbiamo fatto uscire un foglio che era il grido della nostra cospirazione; soli, senza aiuti né finanze, liberi da qualsiasi legame politico, entusiasti e disperati, pochi e sempre giovani; e l’abbiamo durata sino alla fine, per una ragione sola! Perché volevamo essere liberi!».
Nella Torino occupata, il quindicenne Ercole Chiolerio, figlio di genitori non vedenti, lavora come operaio per sostenere la famiglia ed è gia parte della Resistenza.
Le donne sono state protagoniste fondamentali della Resistenza. Tra loro, ragazze giovanissime come Maria Romana De Gasperi, Milena Zambon e Tina Anselmi.
Bastia Mondovì, piccolo paese della provincia di Cuneo. Anche lì dopo l’8 settembre arriva l’occupazione tedesca. Franco Centro, 13 anni, è poco più di un bambino ma non ha nessuna voglia di stare a guardare: vuole diventare partigiano.
Nel 1928, quando Mussolini scioglie lo scoutismo, un gruppo di giovani dagli 11 ai 17 anni prosegue le attività scout in maniera clandestina, dando vita alle “Aquile Randagie”.
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